Le ragazze di Chibok, l'Hotel Supramonte e Fabrizio De André. Il rapimento
Il
“rapimento”
tra cronaca, musica, filosofia e psicologia. Gli occhi bendati di donne
in fiamme e uomini soli che urlano pietà nel silenzio
assordante della barbarie umana.
“E
se vai all'Hotel Supramonte e guardi il cielo
Tu
vedrai una donna in fiamme e un uomo solo
E
una lettera vera di notte falsa di giorno
Poi
scuse, accuse e scuse senza ritorno
E
ora viaggi, vivi, ridi o sei perduta
Col
suo ordine discreto dentro il cuore
Ma
dove, dov'è il tuo amore, ma dove è finito il tuo
amore?”
C'è una filosofica analogia tra il rapimento di Fabrizio De André, di cui proprio oggi si ricordano i 20 anni della sua scomparsa, e della moglie Dori Ghezzi avvenuto nel 1979, con quel rapimento di ragazze, studentesse all'epoca giovanissime, avvenuto a Chibok nel mia Nigeria nell'aprile 2014.
De André racconta il suo rapimento nella canzone "Hotel Supramonte", mentre quelle ragazze nigeriane ricordano il loro nei diari e nei racconti di quelle sopravvissute e che oggi sono libere.
Dove
finisce l’amore di chi è prigioniero,
solo, dimenticato. Resta sospeso a mezz'aria nelle
beghe di un tempo che è signore distratto e bambino che
dorme. Resta impigliato nei pensieri di chi
continua a rivolgere lo sguardo al Cielo aspettando di riabbracciare
chi sembra ormai perduto in un domani sempre troppo incerto, di nuvole
e sole. Resta tra le dita di chi ha ancora paura e
si prende per mano. Resta o svanisce, tra le albe e i tramonti di
giorni lunghi e senza parole.
Senza parole sono i giorni e
senza parole restano le menti e i cuori. Quei cuori dall'ordine
discreto, quei cuori che Fabrizio De
André si chiede “ma
dove”,
dove sono.
È
una poesia struggente cantata su note altrettanto malinconichee con voce non meno
graffiante quella dell’Hotel Supramonte.
I
versi, pregni di una tristezza dolce e di una pacatezza
aspra, celano il racconto dell’esperienza della prigionia
vissuta da Fabrizio De André e da sua
moglie Dori Ghezzi in seguito al rapimento avvenuto
la sera del 27 Agosto 1979. Il
titolo della canzone si riferisce, appunto, al Supramonte,
la catena montuosa che si snoda nella zona centro-orientale della
Sardegna, da sempre nascondiglio di banditi, latitanti e
contrabbandieri. Il cantautore e la compagna vennero poi liberati, in
seguito al pagamento di un cospicuo riscatto, rispettivamente il 22 e
il 21 Dicembre dello stesso anno.
Ma
quante donne in fiamme e quanti uomini soli vivono la stessa tragedia
sperimentata da De Andrée sono condannati ad una
sorte ancora più infausta e drammatica? Sono
tanti i casi di rapimento riportati dalla cronaca, sono molti i
mandanti e altrettanti i carcerieri che si macchiano di un reato
così brutale. Alcuni di loro vengono smascherati. Altri,
invece, restano senza volto, mentre le loro grida continuano ad
echeggiare nelle orecchie delle loro sfortunate vittime, come un incubo
che ama ritornare e tormenta.
Il caso Chibok. “Passerà anche
questa stazione senza far male. Passerà questa pioggia
sottile come passa il dolore”
È
di questa estate la notizia della condanna a 20 anni di
reclusione per un uomo accusato di essere implicato nel rapimento di
oltre 200 ragazze dalla loro scuola di Chibook, avvenuto
nell’aprile del 2014 nel nord-est della Nigeria,
da parte degli estremisti di Boko Haram.
#BringBackOurGirls. Una notizia che ha
riportato agli onori della cronaca un rapimento che quattro anni fa
sconvolse il mondo e che ancora oggi resta un capitolo aperto.
Cos’è
Boko Haram.
“Un
invito all’Hotel Supramonte dove ho visto la neve”
“Boko
Haram”
è una traduzione nella lingua haussa di una frase secondo
cui l’educazione occidentale è un peccato.
I miliziani di questa
formazione non credono che la Terra sia rotondaperché nel
Corano non c’è scritto,
così come non credono che la pioggia sia un fenomeno di
evaporazione e condensazione dell’acqua perché la
pioggia è una benedizione oppure una maledizione di Allah.
Si
deve la nascita di Boko Haram all’imam Mohamed
Yusuf, che diede vita a questo gruppo di
integralisti nel 2002. Basti pensare che, secondo tale predicatore, la scienza avrebbe
dovuto essere bandita dalla Nigeria, così come
la democrazia, da sostituire con la sharia, la legge islamica.
Tuttavia,
il punto di svolta per il movimento si ebbe nel 2009,
quando il fondatore fu arrestato e ucciso in carcere dopo una presunta
insurrezione da lui guidata nella città di Maiduguri,
capitale dello Stato di Borno. Il suo posto come
capo, spirituale e militare, fu preso da un altro religioso,
Abubakar Shekau, che negli anni
successivi cambiò la strategia del gruppo, rivoluzionando il
loro modus operandi.
Fino
ad allora i fanatici di Boko Haram si erano limitati a
protestare minacciosamente e pubblicamente contro le scuole di tipo
occidentale, contro il presunto allentamento dei costumi,
contro la polizia che non puniva severamente malavitosi e commercianti
di alcol e contro la dilagante corruzione dei politici e dei militari.
Incutevano
timore, sì, ma chiunque li avesse visti avrebbe
probabilmente pensato che non sarebbero potuti andare molto lontano e
si sarebbero estinti progressivamente col tempo. Del resto, potevano
solo contare su bastoni e machete.
Eppure,
qualsiasi individuo si fosse recato a Maiduguri nel 2014 non
avrebbe potuto fare a meno di constatare, con una certa inquietudine,
che Boko Haram aveva armi automatiche in
quantità, combattenti esperti, una buona capacità
logistica, enormi riserve di esplosivo e militanti in grado di usarlo
con perizia, tanto che dopo il cambio della guardia le nuove direttive
prevedevano uccisioni di religiosi musulmani moderati, attentati
suicidi nei mercati, distruzioni di villaggi e rapimenti di bambini per
farne soldati.
Dal
2009 deecine di migliaia di persone sono morte e 2,7milioni
sono fuggite dai villaggi distrutti
Certamente
vi furono interessi locali, politici ed economici che traevano un
ingente profitto dall'esistenza di Boko Haram e della psicosi che i
suoi militanti seminavano. Ma è altrettanto certo che a
partire dal 2012 si fecero sentire anche pressioni esterne, in
particolare quelle provenienti dal jihadismo mediorientale.
Tirando
le somme, la conclusione indubbia per chiunque avesse
assistito all'evoluzione del gruppo sarebbe stata allora che qualcuno,
evidentemente, aveva voluto investire sul terrore.
Un terrore sempre meno provinciale e sempre più aggressivo.
Un terrore che ringhia ed uccide soprattutto adesso.
Chibok e la foresta di Sambisa. “Ora siedo sul letto del bosco
che ormai ha il tuo nome”
Chibok
è una piccola città del nord-est della Nigeria
appartenente allo Stato di Borno. Isolata e protetta dalle montagne, nel
Settecento divenne un rifugio per chi scappava dai trafficanti di
schiavi, fu una delle ultime località nigeriane a
passare sotto il controllo britannico durante il colonialismo.
Se
la popolazione del nord della Nigeria è per la maggior parte
musulmana, Chibok
è una piccola eccezione: nel 1941 una coppia di
missionari statunitensi arrivò nella città e ne
convertì gran parte degli abitanti al cristianesimo.
Da
allora, i diversi gruppi religiosi hanno vissuto abbastanza bene
insieme, almeno fino all'arrivo di Boko Haram
Nel
2014, 276 studentesse di Chibok furono rapite nella
notte tra lunedì 14 e martedì 15 aprile.
La scuola femminile della città, che era anche un convitto,
aveva tutte le caratteristiche per non piacere a Boko Haram. Alle
sue studentesse erano insegnati i principi scientifici e studentesse
musulmane e cristiane studiavano fianco a fianco. Scambiavano
pensieri. Creavano idee. Erano perciò pronte a cambiare
quelle a cui erano state educate e a diffondere le proprie. Forti
dell’arma sola della cultura.
Le
ragazze furono portate nella foresta di Sambisa, che, per
parafrasare ancora una volta De André, divenne il
letto di un bosco che ormai aveva il loro nome.
Qui si trovava la base di Boko Haram e qui furono divise tra cristiane
e musulmane. Le musulmane furono costrette a sposare dei
miliziani e lo stesso accadde alle cristiane che accettarono
di convertirsi all'Islam.
Le
ragazze cristiane che rifiutarono la conversione, le
“peccaminose”, furono invece ridotte in
schiavitù, costrette a dormire all'aperto e a
compiere vari lavori duri, oltre a cucinare per i miliziani, curare
quelli feriti e seppellire quelli morti, divennero schiave
sessuali. I loro guardiani le separarono in piccoli gruppi e
continuarono a spostarle nelle varie basi per tenerle nascoste.
Per
molto tempo, prima di rendersi conto del loro
valore come ostaggi, Abubakar Shekau le
considerò una “seccatura”,
poiché a differenza di quanto avveniva con i bambini rapiti,
non poteva usarle come soldati ed era per di più obbligato a
provvedere al loro sostentamento e a impegnare degli uomini nella loro
sorveglianza. Provò a costringerle a studiare
l’Islam, ma ciò non servì a molto.
La
maggior parte delle ragazze cristiane non si convertì mai
all'Islam, nemmeno quando i miliziani dissero loro che le
avrebbero liberate se tutte si fossero convertite.
Si
fecero forza a vicenda, sfruttando il fatto di conoscere una
lingua parlata a Chibok, il Kibaku, che i miliziani
non conoscevano
Verso la
libertà. “Giorni lunghi e senza parole,
giorni incerti di nuvole e sole”
A
metà 2016 furono pianificati due scambi. Nel primo
Boko Haram avrebbe liberato 20 ragazze in cambio di un milione di euro;
se lo scambio fosse riuscito, ce ne sarebbe stato un secondo al prezzo
di due milioni di euro, cifra corredata dal rilascio di cinque
miliziani prigionieri del governo nigeriano. Il presidente
Buhari acconsentì all'accordo tra Mustapha,
interlocutore con cui il gruppo terroristico aveva accettato di
contrattare, e Boko Haram, chiedendo che il pagamento del riscatto
fosse un primo passo verso un accordo di pace.
Il
primo scambio avvenne, così, il 13
ottobre 2016: furono
rese libere 21 ragazze, una in più in segno di
riconoscimento per Mustapha e per il suo lavoro con
gli orfani dei miliziani di Boko Haram. Il secondo scambio
avvenne invece, il 6 maggio 2017.
Queste
giovani donne adesso studiano musica, letteratura ed
informatica all’Università Americana della
Nigeria, a Yola, nello stato di Adamawa: i loro studi sono pagati dal
governo.
Oggi, un capitolo ancora aperto tra
paura e speranza.
“Ma
se ti svegli e hai ancora paura ridammi la mano. Cosa importa se sono
caduto, se sono lontano”
Delle
276 studentesse rapite a Chibok nel 2014, 163 sono ad oggi libere,
57 fuggirono poco dopo il rapimento, altre 3 scapparono in seguito, e
103 furono liberate grazie alla trattativa organizzata dalla Svizzera.
Delle
rimanenti 113, si
stima che almeno 13 siano morte, la maggior parte a causa
di bombardamenti aerei, altre di malaria, di fame o per il morso di
serpenti; di quelle costrette al matrimonio, 2 sono morte di parto.
Delle
276 studentesse rapite a Chibok
nel 2014, CENTO sono ancora prigioniere di Boko Haram
Inoltre,
secondo l’UNICEF, dal 2013 più
di 1.000 bambini e bambine, e altrettante donne sono state rapite da
Boko Haram nel nord-est della Nigeria, sono
stati uccisi almeno 2.295 insegnanti e distrutte
più di 1.400 scuole. La maggior parte di queste
non sono state più riaperte. Un milione di bambini
non può più andare a scuola.
Durante
la prigionia, Naomi Adamu,
una studentessa
rapita e poi resa libera, scriveva di nascosto quello che
vedeva e sentiva, facendosi portavoce di una cronaca straziante narrata
con gli occhi di chi ha visto l’orrore e l’ha
vissuto sulla propria pelle.
Il
diario è stato scritto su uno dei quaderni che i
miliziani avevano dato alle ragazze per prendere appunti durante le
lezioni sul Corano a cui le obbligavano a partecipare.
Dopo
aver scoperto che alcune ragazze usavano i quaderni come diari,
i miliziani glieli bruciarono. Adamu
riuscì a salvare i propri, tenendoli nascosti tra la
biancheria intima. La BBC ha pubblicato i passaggi
più salienti di quel diario.
«Sono venuti da noi e ci
hanno detto: “Per le musulmane, è
l’ora della preghiera”.
Dopo la preghiera, hanno detto: “Ora le
musulmane si mettano da una parte e le cristiane dall’altra”. Poi abbiamo
visto che avevano una tanica nella macchina e abbiamo pensato che fosse
benzina. Ci hanno detto: “Chi e quante di voi
vogliono convertirsi all’Islam?”. Allora molte di
noi, per paura, si sono alzate e sono andate dentro… Hanno
detto: “Quelle che sono rimaste vogliono morire,
è questa la ragione per cui non volete essere musulmane? Vi
bruceremo…”.
Poi ci hanno dato quella tanica, che pensavamo contenesse della
benzina. Non era benzina, era acqua»
«Ha
aperto il Corano e ha cominciato a leggerlo, poi è arrivato
a un passaggio che dice che chiunque loro rapiscano durante il jihad
è loro, possono farci quello che vogliono… Non
è un dovere per una persona coprire il corpo, ma ci hanno
dato gli hijab perché non volevano vedere il nostro corpo,
che li farebbe peccare e questa è una cosa molto brutta»
«Ci
hanno detto che quelle che non accettano di diventare musulmane sono
come pecore, mucche e capre… Che le avrebbero
uccise… Poi Malam Abba ha detto che quelle che non si
sarebbero convertite dovevano stare separate, non dovevano andare da
quelle che erano diventate musulmane. Ci ha detto di stare separate,
che ci avrebbero preparato un altro posto. Un altro ha detto invece che
saremmo rimaste insieme»
«Dio mi ha salvata», la fede come
“condanna” e come ancora di
salvezza. “Grazie al Cielo ho una bocca
per bere e non è facile”
«Ho
pregato chiedendo a Dio di salvarmi e lui lo ha fatto. So che
è stato merito suo». Joy
Bisharaè
un’altra delle 276 ragazze rapite. Caricata con
tutte le altre sul camion diretto nella roccaforte jihadista,
è riuscita a saltare giù dal veicolo in corsa, a
scappare a perdifiato per ore nella boscaglia e a tornare a casa poche
ore dopo il rapimento.
«A
un tratto il camion ha cominciato a rallentare, come se si fosse
fermato. È successo pochi minuti dopo la mia richiesta a Dio
di aiutarmi. Gli ho chiesto di salvarmi e lui lo stava facendo. Ho
sentito una voce dire “salta giù”» e
così, nonostante l’altezza e il timore di morire
per l’impatto, Joy è saltata
insieme a un’altra amica e ad altre ragazze. Per ore ha corso
senza voltarsi indietro nella boscaglia, fino a quando non ha
incontrato un motociclista che l’ha aiutata a tornare a casa.
«Dopo la fuga sono diventata davvero
cristiana. Non si può mai dire quali siano i piani di Dio.
Bisogna solo ascoltare e obbedire. È quello che ho fatto.
Quando sono arrivata qui negli Stati Uniti mi sono battezzata.
È davvero incredibile quello che Dio ha fatto nella mia vita»
Che
si abbracci il “credo ut intelligam”
o l’“intelligo ut credam”,
l’irrazionalità peculiare della religione rende
difficile comprendere e capire pienamente il mistero di cui
è pregno ciò che appare, agli occhi del
protagonista, come “miracolo”
Nella
storia del Pensiero sono state molte le ‘dimostrazioni
razionali’ dell’esistenza di
Dio, pensiamo a Cartesio, Anselmo,
Tommaso, Kierkegaard,
nell’alternarsi di prove e argomentazioni frutto del
tentativo di provare la Sua inesistenza. Sicuramente, in questa
dichiarazione si cela tutta la meraviglia della fede, svincolata da
pretese di Ragione. Una fede pressoché folle, che sola
può conferire conforto e speranza anche lì dove
potrebbe rappresentare una ineludibile condanna.
Con la mente si
può capire una cosa, capirla e carpirla; oppure
comprenderla, prenderla dentro di sé, farla propria. È nel secondo
caso che sboccia e appassisce la massima agostiniana, «Si
comprehendis non est Deus», nel fiorire di
una dimensione più alta che sfiora l’Assoluto.
Perché “l’educazione
occidentale è un peccato”. “E poi scuse, accuse e scuse
senza ritorno”
“Boko
Haram”, e il significato del suo nome. Ma se
l’educazione occidentale è un peccato, qual
è il peccato originale di tale cultura?
Afferendoci
a Nietzsche, il retrogusto della “mela”,
nel senso proprio di malum (mela e male), ed il
cambio di rotta verso nuove colonne d’Ercole viene
individuato in concomitanza con la comparsa di Socrate.
Così
come Adamo ed Eva commettendo il peccato originale hanno condannato tutti
gli uomini al dolore e alla morte, Socrate,
con la sua filosofia, ha
condannato l’umanità a cadere nella
mediocrità e nella decadenza.
Nietzsche
scorge nell'uomo moderno una mancanza di entusiasmo e di energia.
Nel mondo greco, invece, scorge la stagione più alta e
più ricca della storia umana, e individua il segreto di quel
mondo nello spirito “dionisiaco”.
Il dionisiaco è passione ed ebbrezza,
è liberazione degli impulsi profondi. Al "dionisiaco"
Nietzsche contrappone l’“apollineo”,
un atteggiamento
esistenziale ispirato dalla ragione e dalla riflessione,
dal controllo dei sensi e degli istinti.
Ebbene,
quello che Nietzsche sottolineaè che
è stato Socrate a inaugurare nella mentalità
greca una visione razionale del mondo e delle vicende umane;
e secondo il pensatore tedesco la rassicurazione cercata nell'ordine
razionale dell’universo è propria di una cultura
indebolita e decadente. Con Socrate, l’epoca tragica giunge
alla fine, e comincia l’epoca della ragione e
dell’uomo teoretico.
Socrate cerca di
dare una giustificazione di valore universale a concetti come la
saggezza,
l’amicizia e la virtù
in generale.
E, ancora, propone «ottimismo», la
credenza nella bontà originaria dell’uomo (la
virtù può essere insegnata a tutti e tutti la
possono apprendere), con la sua
fiduciosa attesa di un mondo felice.
Come
può l’uomo che confida in sé stessoe sa di non saper
ammettere ciecamente che la terra è piatta e
che l’acqua non evapora, come predicato dalla
filosofia integralista di Boko Haram. Che è vero
solo ciò che è scritto nel Corano, la scienza, le
conquiste umane e la ragione "è peccato"
e va punito.
La psicologia del rapimento.
Rapito, carceriere e mandante. “Ma dove, dov'è il
tuo cuore. Ma dov'è finito il tuo cuore?”
«I
veri prigionieri continuano a essere i sequestratori. Tanto
è vero che noi siamo usciti e loro sono ancora dentro». Furono in molti
ad essere spiazzati dalle parole di comprensione che Fabrizio De André, dopo quasi
quattro mesi di prigionia, riservò ai suoi rapitori. Venne
rilasciato, dopo che il padre Giuseppe pagò un riscatto di
oltre 550 milioni.
Fedele alla sua fama di cantore di umili e diseredati, Fabrizio si
costituì parte civile soltanto nei confronti dei mandanti,
«le cui condizioni economiche non
consentono trovare per essi alcuna giustificazione»
Il cantautore genovese disse
addirittura di essere riuscito a perdonare i carcerieri: “Ho
perdonato loro [i sequestratori] perché, potendoci fare del
male, hanno scelto di trattarci bene. Vorrei che certi catoni, certa
gente che mi dice ‘Dovevi prima impiccare e poi
perdonare’, vivessero l’esperienza che
abbiamo vissuto noi e provassero quanto è importante, in
quelle condizioni, essere trattati con umanità”
La
domanda sorge spontanea, come nasce questo spirito di misericordia
verso chi tanto ci fa soffrire?
Ebbene,
la psicologia del sequestro di persona è
intimamente legata alle peculiarità di questo delitto doloso.
L’esperienza insegna che tra le motivazioni alla base di tale
reato si trovano prevalentemente quelle a scopo di terrorismo ed
eversione, quelle a scopo di estorsione ma anche quelle a scopo di
sfruttamento delle qualità intrinseche nel soggetto.
Il
sequestro di persona rappresenta così un crimine
particolarmente brutale, primariamente perché pone
il soggetto in una condizione di moderna “schiavitù”,
ma anche perché lo espone ad un elevato livello di violenza
per un periodo prolungato di tempo, spesso coinvolgendo in questa
violenza anche i congiunti del rapito.
Approfondendo
il punto di vista psicologico, nelle dinamiche di sequestro
sono presenti diversi meccanismi assai rilevanti. Il
principale è quello che intende spogliare la vittima di ogni
qualità personale positiva, ostacolando cosi un
eventuale processo di identificazione del sequestratore con la vittima
stessa, rimuovendo con esso la naturale empatia che impedisce il
desiderio perverso di infliggere prolungate sofferenze gratuite ad un
suo simile.
In
questa operazione il sequestratore si ripulisce la coscienza,
superando il senso di colpa e inquadrando il sequestro come un
pareggiamento di conti o come un atto dovuto. Di fatto il mandante,
invece, di per sé committente di tale barbarie, è
propriamente il Ponzio Pilato del rapimento: si lava le mani e delega
lo sporco lavoro a carcerieri che, al di là del fatto che
siano seriali o meno, accettano l’infausto ruolo per lo
più per motivazioni economiche.
Il
sequestro ha quindi inizio con la cattura, con un elevato
impatto psicologico, per ovvi motivi, sulla vittima ed in certa misura
anche sul sequestratore. L’ostaggio viene privato
improvvisamente ed in modo spesso violento della sua libertà,
quindi delle sue abitudini e talvolta della sua identità.
Non
potendo più determinare nulla della sua esistenza viene
ridotto ad un oggetto nelle mani dei sequestratori. L’effetto
“sorpresa” necessario
alla cattura costituisce allora in sé per sé un
traumatismo, una dolorosa distruzione della sicurezza personale, un
crollo nella fiducia del mondo esterno, una chiara percezione di
pericolo di vita. Circa invece il sequestratore la cattura coincide con
l’inizio dell’attività criminosa, con lo
spartiacque nella percezione della propria identità come
persona “normale” o come
criminale efferato.
Segue
a questo punto solitamente una fase di trasferimento durante
la quale la vittima percepisce con sempre maggiore chiarezza
l’allontanamento dal mondo della sua libertà e
l’entrata in un mondo diverso, sconosciuto, ostile, atto a
mantenere la sua condizione di “oggetto
rubato”
Il
trasferimento si completa con la prigionia, solitamente messa
in atto in luoghi angusti e difficilmente accessibili, sotto la
sorveglianza di soggetti spesso pregiudicati o addirittura latitanti,
comunque capaci di essere privi di impegni sociali, familiari,
lavorativi per lungo tempo.
Un
accenno a sé stante nelle dinamiche di sequestro va
riservato agli aspetti “vittimologici”
relativi alla relazione vittima-carnefice e alle conseguenze in termini
di danno psichico per la vittima.
Degna
di nota è la famigerata Sindrome di Stoccolma, che prende il nome da
una rapina con ostaggi avvenuta in questa città nel 1973,
i cui i sequestrati mostrarono elevata solidarietà e
identificazione con gli aggressori, verosimilmente attuate in un
procedimento teso dapprima a negare le sofferenze che le 131 ore di
sequestro armato procurarono loro e successivamente a giustificare il
comportamento del rapitore sulla base di sofferenze precedentemente
patite dallo stesso.
In
questi casi,
però, si
osserva anche un processo di identificazione del rapitore con la vittima
che lo spinge ad attenuare la sua aggressività in un
biunivoco sentimento di humanitas
che ritroviamo anche nelle parole del cantautore genovese una volta
tornato alla libertà, che giunse a dichiarare perfino:
«È un
luogo [quello
della prigionia] dove le
tensioni sociali esistono. Ma sono temperate dal contatto diretto con
la natura e da una profonda moralità che si estrinseca nel
rispetto di alcuni valori fondamentali, come per esempio
l’ospitalità. Per quanto strano possa apparire,
anche questo ho trovato nei nostri carcerieri»
Il
22 dicembre del 1979, alle ore due del mattino, Fabrizio
De Andrè lasciò il “suo”
Hotel Supramonte, dove aveva visto la neve. Quella stazione
era per lui passata, senza far male seppur infliggendo cicatrici
profonde e dolceamare. Altri orizzonti aspettavano il suo treno, gli
stessi che al confine tra la terra e il cielo aspettano chiunque riesca
a riconoscere nuovamente la libertà.
Si
può assaporare la libertà in una gabbia,
la si
può ripudiare quando, invece, si è convinti
di possederla. Non esiste prigionia più
dolorosa di quella che ci rende sotto scacco del nostro io, delle
nostre paure, dei nostri rimpianti, d’altra parte.
Quante
vittime in ostaggio riescono a respirare molta più
libertà dei loro carnefici? Quante volte siamo noi,
carnefici di noi stessi, a soffocarci?
Se
si viaggia, si ride, si vive, non si è mai perduti
Anche per coloro che hanno dentro
al cuore il loro Hotel Supramonte ed un ordine discreto, questa
stazione passerà, come passa il dolore.