Strade del Sesso. Friuli, La Napoleonica e la Ferrata dove la prostituzione non c'è più
Friuli
e Udine, un esempio positivo di come si
può vincere la prostituzione e la mafia nigeriana.
La
"Ferrata"
(strada provinciale 95) è una strada
dritta, talmente dritta che per i primi 30 chilometri è
perfino senza una curva, parte dal comune di Basiliano (zona
Udine Sud) e porta fino a Portogruaro. Ai tempi del fascismo
era una ferrovia costruita da Mussolini per permettere ai tedeschi di
portare i deportati nei campi di concentramento di Germania e Polonia
senza passare per la città di Udine. Nel secondo dopoguerra
quella ex-ferrovia è diventata una strada, una provinciale
che oggi taglia la pianura friulana.
La
"Napoleonica"
è invece la via percorsa (forse addirittura
costruita) dalle truppe di Napoleone quando è
venuto in Friuli a firmare il famoso trattato di Campoformido, comune a
sud di Udine (era il 1797),
quando la Repubblica di Venezia, sconfitta, fu ceduta all'allora Impero
Austro-Ungarico. Oggi è classificata come strada
regionale, la numero 252, e da Codroipo
arriva fino alla città stellata di Palmanova.
Ad
un certo punto le due strade si incrociano, sono dunque tra
di loro vicine, e come dicevo fino
a 15 anni fa erano popolate di giorno da un brulicare di giovani
nigeriane che offrivano il loro corpo per 10-20.000 lire di allora.
Tra il 1996 e il
1997 su quelle strade c'ero anch'io. Il mio "posto"
era all'altezza di un paesino che si chiama Pozzecco.
Poi,
tra il 1998 e il 1999, hanno iniziato ad
arrivare anche le ragazze albanesiche facevano pagare le
prestazioni sessuali molto di più di quelle nigeriane.
Era il segno inequivocabile che anche la "mafia albanese"
era arrivata in Friuli. Non ho mai capito se nel tentativo di
soppiantare la "mafia nigeriana" che già
c'era da parecchi anni, oppure in accordo con la "mafia
nigeriana" stessa.
Sta
di fatto che le forze dell'ordine, tutte, polizia,
carabinieri e perfino la guardia di finanza hanno iniziato a fare "retate",
non una ogni tanto, ma due, tre, quattro, ogni settimana, un'azione
continuata per mesi e mesi, forse più di un anno. Di
giorno sulla Napoleonica e sulla Ferrata e di notte in città.
C'erano momenti di pausa perché le ragazze sparivano per un
po', ma tempo una settimana dieci giorni e le ragazze ritornavano, e
allora riprendevano anche le "retate". Fu
una lotta.
Le
ragazze, allora tutte senza documenti, venivano
prese e portate in Questura, veniva loro consegnato il "foglio
di via", alcune portate nei centri fuori dal Friuli per
essere rimpatriate, altre ancora riportate direttamente in Nigeria.
Si
calcola che tra la fine degli anni '90 e i primissimi anni duemila solo
a Udine ci fossero 2-300 ragazze nigeriane
che si prostituivano, un calcolo per difetto perché la
Caritas udinese all'epoca calcolò che le nigeriane erano
almeno il doppio di quello fornito dalle autorità di polizia
e dal prefetto.
Le
ragazze che venivano rilasciate con il "foglio di via" ovviamente
tornavano a prostituirsi, quelle portate via o rimpatriate
venivano subito sostituite da altre, magari più giovani. È per questo
che l'azione delle forze dell'ordine doveva essere continuativa.
La "mafia nigeriana" doveva sentirsi con il fiato
sul collo, doveva sapere che Udine NON era una "piazza"
sicura per i loro affari, perché non poteva contare
più sulle "ragazze"
Fu
fatta un'azione anche contro i "clienti".
Venivano segnalati, altri denunciati per sfruttamento quando venivano "beccati"
con le ragazze in macchina. Erano tempi duri per i così
detti "papagiro locali" (italiani
che frequentano prostitute),
o per i "taxisti del sesso",
quelli che portano le ragazze sul luogo di lavoro e magari vanno a
riprenderle alla sera in cambio di una sveltina. Chi veniva fermato con
una ragazza nigeriana in macchina lungo la Ferrata o la Napoleonica,
oppure in città rischiava grosso.
Ma
tutto questo non era ancora abbastanza.
Si doveva fare anche tutta un'azione di "intelligence",
capire dove le ragazze abitavano, come sono arrivate a Udine, chi le ha
portate e soprattutto chi le costringeva a prostituirsi.
Alcune
ragazze nigeriane portate in questura hanno iniziato a fare le prime
ammissioni, le
prime confessioni, e perfino le prime denunce. Molte
all'epoca, hanno preferito la via della protezione sociale piuttosto
che il rischio concreto del rimpatrio.
Sono
iniziati così a Udine e nell'interland, anche i blitz nelle case
e negli appartamenti delle "mamam" dove venivano alloggiate 3, 5 e
anche più ragazze. Ci furono arresti, molti
arresti, i giornali locali erano pieni di queste notizie quasi con
cadenza quotidiana.
Un
colpo duro per quello che i nigeriani, allora come
adesso, chiamano semplicemente "business".
Un business fatto sulla pelle di ragazze arrivate dalla Nigeria spesso
con l'inganno, tenute sotto controllo perché non conoscono
l'italiano, non conoscono le leggi italiane, non si fidano di nessuno,
che paradossalmente si fidano solo dei loro connazionali che le stanno
sfruttando.
Le
"mamam" che ospitano le ragazze sono l'ultimo anello
della mafia nigeriana, quello operativo, quello che gestisce
e deve far "lavorare" le ragazze. Sono donne integrate
nella società civile, spesso hanno una famiglia
e perfino hanno un lavoro regolare. Quasi sempre loro stesse sono state
"sfruttate" in passato, e nella loro logica perversa
ritengono che sia perfino giusto far passare alle nuove ragazze quello
che loro stesse hanno passato.
Oggi
si calcolache
almeno una ragazza nigeriana su venti-trenta sia a rischio di diventare
a sua volta una "mamam" in futuro, per
queste donne è come elevarsi socialmente, possono tornare in
Nigeria a testa alta, dove vanno a reclutare nuove ragazze esibendo la
loro ricchezza, i loro bei vestiti, il loro nuovo status sociale.
Il
raggiungimento della consapevolezzae
quella zona grigia tra lecito e illecito da debellare. Quel vedere ma far finta
di niente, quel sapere ma non denunciare. Fin dall'inizio
degli anni duemila a Udine fu fatto un lavoro capillare all'interno
della comunità nigeriana, coinvolgendo associazioni di
volontariato, Caritas, le stesse forze di polizia, le istituzioni
comunali, provinciali e regionali. Furono coinvolte persone in vista
tra la comunità nigeriana, come per esempio i pastori
pentecostali, gli african shop e altri punti di ritrovo dei nigeriani.
L'obiettivo
era quello di affermare che a Udine non viene tollerato lo sfruttamento,
che a Udine la "mafia nigeriana" non era la
benvenuta, ma soprattutto l'obiettivo è stato quello di
creare all'interno della stessa comunità nigeriana la
consapevolezza che quel tipo di "business" non era
giusto, non era etico, e non poteva essere tollerato. Obiettivo
raggiunto, direi.
Per
approfondire cos'è la "zona grigia"
il mio articolo
Quella
zona grigia della mafia nigeriana di cui nessuno parla
- leggi
-
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Quello
che è stato fatto a Udine poi si è esteso a tutta
la Regione Friuli, soprattutto a Trieste, dove la mafia nigeriana era
allora ben radicata.
Ci
sono voluti alcuni anni, un lavoro costante di tutti,
dal volontariato alle istituzioni. Oggi possiamo dire che
in tutto il Friuli non c'è nemmeno una nigeriana costretta a
prostituirsi, anzi Udine è diventato un luogo
dove le ragazze vengono proprio per scampare allo sfruttamento
perché è la stessa comunità nigeriana
che le aiuta, vanno a scuola, imparano l'italiano, alcune frequentano
l'Università della città (come feci
anch'io tra il 1997 e il 1999), il tutto in un regime di
protezione e di consapevolezza civile che impedisce ai mafiosi
nigeriani di mettere radici.
La
Ferrata e la Napoleonicaoggi sono due strade
assolutamente normalie
Udine è una città liberata dalla "mafia
nigeriana". C'è
una numerosa comunità nigeriana ben integrata, che lavora, che studia e
che cresce con le seconde e terze generazioni fianco a fianco con i
friulani e a volte perfino li sposano. Io stessa ho sposato un
friulano, altre mie amiche hanno sposato dei friulani.
Io
questo lo chiamo "modello Friuli due", il
primo fu quello della ricostruzione post-terremoto, un modello che
potrebbe essere esportato ovunque in Italia dove la mafia nigeriana
è oggi presente.
Ci
vuole però il coinvolgimento di tutti, delle forze
dell'ordine, delle autorità politiche e della
società civile, del volontariato, sentire che le istituzioni
pubbliche ti appoggiano, e il coinvolgimento concreto e attivo della
stessa comunità nigeriana.
Bisogna
capire che la sola attività di repressione
potrà dare dei risultati nel breve periodo, ma difficilmente
li darà nel medio e lungo periodo. Ci vogliono anni e un
lavoro paziente che coinvolga TUTTI.
Una
strada può essere lunga o corta, ma se non fai il primo
passo sarà infinita