Il Razzismo Scientifico. Cattiva scienza, molti pregiudizi
"Ogni tempo ha il suo fascismo, se ne notano i segni premonitori dovunque la concentrazione di potere nega al cittadino la possibilità e la capacità di esprimere ed attuare la sua volontà. A questo si arriva in molti modi, non necessariamente col timore dell'intimidazione poliziesca, ma anche negando o distorcendo l'informazione, inquinando la giustizia, paralizzando la scuola, diffondendo in molti modi sottili la nostalgia per un mondo in cui regnava sovrano l'ordine, ed in cui la sicurezza dei pochi privilegiati riposava sul lavoro forzato e sul silenzio forzato dei molti". (Primo Levi)
Per secoli si è tentato di definire dei criteri “oggettivi” per classificare le persone umane, per fornire supporto ad un razzismo scientifico, che afferma che la naturale diversità biologica tra gli individui o tra le popolazioni si riflette nelle gerarchie sociali o etniche. Questo falso paradigma, che ha avuto pesanti conseguenze sul piano politico e socio-culturale, è basato su presupposti ideologici che mirano a giustificare le disuguaglianze e a legittimare la tesi della superiorità dei “bianchi”, e quindi del loro diritto di sopraffazione su altri gruppi umani. Sulla base di questo pregiudizio il razzismo scientifico è riuscito ad avallare molteplici forme di discriminazione, per creare e perpetuare un ordine sociale, in cui le classi dominanti hanno mantenuto privilegi e diritti, a danno delle classi subalterne. Nella storia il cosiddetto “razzismo scientifico” è servito da pretesto per giustificare lo schiavismo, il colonialismo, la segregazione di gruppi etnici minoritari, la discriminazione, la tortura, la persecuzione e persino il genocidio.
A partire da Linneo, il grande innovatore della classificazione delle specie, schiere di scienziati ottocenteschi hanno cercato di identificare caratteristiche somatiche, i cosiddetti tratti antropometrici, come il volume cranico, il grado di prognatismo o l’indice cefalico, per tentare di catalogare i gruppi sociali o etnici. Lo scopo era quello di arrivare a costruire una gerarchia di valore tra di essi, associando arbitrariamente ai connotati fisici qualità comportamentali o abilità intellettuali, che pertanto sarebbero innate e da cui scaturirebbero le differenze socio-economiche per classe, censo, sesso, etnia e via dicendo. Per quanto sia stato meticolosamente cercato questo nesso biologico non è mai stato dimostrato. «Troppi studi sulle caratteristiche psichiche delle razze si basano prima di tutto sulla presunta superiorità del tipo razziale europeo e poi sull’interpretazione di ogni deviazione da questo come segno di inferiorità mentale. Quando il prognatismo dei negri viene interpretato in tal senso, senza che si sia provata una connessione biologica tra la forma delle mascelle e il funzionamento del sistema nervoso, si commette un errore. Questo è un ragionamento di tipo emotivo, non scientifico».
Quanto i risultati di questi tentativi di classificazione siano stati inconcludenti e fortemente contraddittori, lasciamolo dire a Charles Darwin: «L’uomo è stato studiato più attentamente di qualsiasi altro animale, eppure c’è la più grande varietà di giudizi fra le persone competenti riguardo a se possa essere classificato come una singola razza oppure due (Virey), tre (Jacquinot), quattro (Kant), cinque (Blumenbach), sei (Buffon), sette (Hunter), otto (Agassiz), undici (Pickering), quindici (Bory de St-Vincent), sedici (Desmoulins), ventidue (Morton), sessanta (Crawford) o sessantatre secondo Burke». Darwin, da acuto osservatore qual era, rilevava che «le razze umane non sono abbastanza distinte tra loro da abitare la stessa regione senza fondersi l’una con l’altra» (Darwin 1871).
Come Darwin ben sapeva, il concetto di razza descrive bene la situazione degli animali da allevamento. Infatti, in zootecnia, si definisce “razza” una tipologia di esemplari, discendenti da un numero ristretto di antenati, sottoposti ad un prolungato isolamento riproduttivo rispetto al resto della loro specie. Se l’isolamento viene mantenuto, gli animali si differenziano progressivamente e alla lunga possono dar luogo a specie distinte o andare incontro all’estinzione, come avviene anche in natura. Se possiamo parlare di razze canine, bovine, ovine, equine e così via, è perché l’uomo, fin dalla preistoria, ha selezionato gli animali in base a specifiche proprietà e li ha fatti accoppiare in modo strettamente controllato, tenendo ben separate le diverse linee genealogiche. L’uomo ha scelto gli esemplari da allevare per le loro qualità: il cane da pastore per l’abilità di proteggere il gregge e il cane da caccia per il fiuto e la velocità nella corsa. E così per le mucche da latte o da carne, i cavalli da tiro e da corsa, le pecore da lana o da carne, e via dicendo.
Il concetto di razza, quindi, si adatta molto male alla specie umana, dalla natura molto avventurosa che si è spinta al di là di ogni ostacolo naturale, catene montuose e calotte polari, mari e oceani, deserti o steppe, fino ad arrivare ad esplorare e colonizzare l’intero pianeta. Una specie socievole che è stata anche capace di abbattere barriere linguistiche, culturali e sociali, anche se non sempre in modo amichevole, di mettere a frutto scambi tra culture e società diverse, mescolandosi continuamente anche dal punto di vista procreativo. Di conseguenza, considerato che nell’ambito della nostra specie non c’è stato un fenomeno di isolamento riproduttivo analogo a quello che genera le razze negli animali da allevamento, non ci sorprende che non si riescano a stabilire i confini tra le presunte razze umane. «Il problema delle classificazioni in base a caratteri antropometrici o genetici è che è sempre possibile separare dei gruppi per un singolo o pochi caratteri ma questi gruppi non corrispondono a quelli che si ottengono con un altro insieme di caratteri. Nessuno dei parametri presi in considerazione di volta in volta è sufficiente per caratterizzare una razza umana, perché comunque sia definito il gruppo è sempre omogeneo per quel carattere e molto eterogeneo per tutti gli altri».
Nel XX secolo, fallito il tentativo di distinguere gli esseri umani in base a parametri morfologici, si cercò di trovare il modo di farlo in base alle caratteristiche genetiche, con il presupposto assai semplicistico e del tutto infondato che se i geni possono rendere conto della costituzione fisica della persona, del colore degli occhi o della pelle, possono spiegare anche il suo temperamento, le sue proprietà intellettuali e le sue inclinazioni morali. Alcuni scienziati hanno sostenuto che certi modi d'agire siano causati da una determinata conformazione della rete dei neuroni e che questa, in ultimo, sia l'espressione diretta della costituzione genetica. Il tentativo è quello di ridurre l’identità dell’uomo all’espressione diretta del suo patrimonio genetico, di interpretare il suo modo di agire come determinato a priori da un meccanismo biologico, in particolare dall'azione di singoli geni che controllerebbero specifici comportamenti. «Si cerca di diffondere la convinzione che l’azione dei geni controlli direttamente la conformazione delle reti di neuroni, dando luogo a comportamenti prefissati». Sebbene questi presupposti siano stati smentiti ampiamente dalle evidenze sperimentali, l’ideologia razzista si sforza di riaffermare la supremazia delle classi dominanti, cercando di individuare differenze genetiche tra i gruppi, che possano servire da criteri per la catalogazione e per stabilirne possibilmente una graduatoria. Quindi, ancora una volta, dai temi dell’ereditarietà si fa discendere una concezione gerarchica e classista delle società umane, giustificata da presunte “Leggi di Natura”.
Talvolta a sostegno del mito della razza sono enfatizzate antiche ascendenze comuni tra individui molto diversi, come gli “ispanici”. Negli Stati Uniti l’FBI definisce la razza ispanica come «la razza degli immigrati di madrelingua spagnola: nello stesso catalogo vanno a finire persone di origine europea, africana o dell’America centro-meridionale. I loro antenati sono sparsi in tre continenti e oltre la lingua e lo status di immigrati spesso condividono solo le condizioni socio-economiche». Il più delle volte si trascura l’evidenza che gli appartenenti alla stessa popolazione non hanno tutti lo stesso colore della pelle, struttura dei capelli, forma degli occhi e tanto meno la stessa indole o gli stessi talenti. Al contrario, come è inconfutabile, l’identità individuale è piuttosto legata alla cultura e alla lingua, costrutti basilari nello sviluppo della personalità, che sono però estranei alla biologia.
Se alcune peculiarità nel nostro aspetto sono ben visibili, gli studi più recenti della genetica umana hanno rivelato che esiste un grandissimo numero di differenze genetiche impercettibili tra un individuo e l’altro. Ma questa variabilità è distribuita in modo continuo su tutti i continenti. «La diversità genetica tra gli individui è tale da rendere vuoto il concetto di razza e priva di fondamento scientifico l’idea di superiorità genetica di un qualsiasi popolo su di un altro, non perché tutti gli uomini siano uguali ma proprio perché sono tutti geneticamente diversi». Ma se siamo «tutti differenti», siamo anche tutti «parenti», più o meno alla lontana, visto che l’intera famiglia umana è nata in Africa e da essa circa centomila anni fa partì la diaspora che portò la nostra specie ad espandersi sull’intero pianeta. Nella storia di queste migrazioni, alcune popolazioni sono rimaste più isolate e si sono maggiormente diversificate, mentre il continuo rimescolamento nell’ambito di gruppi che occupavano la stessa area geografica o zone limitrofe tendeva ad assimilarli.
Pertanto, nessun gruppo si può considerare omogeneo, le differenze genetiche sfumano le une nelle altre in maniera graduale da un gruppo all’altro, il che impedisce di stabilire, almeno dal punto di vista genetico, confini tra le popolazioni umane. Come quando si guarda l’arcobaleno, si distinguono bene il blu dal verde, o l’arancio dal rosso, non si può individuare una linea di demarcazione tra una sfumatura e l’altra. È così anche per il colore della pelle, e per i geni che lo controllano: esiste un’ampia gamma di sfumature, che hanno un valore adattativo in specifiche condizioni ambientali. In altre parole, dove c’è un’intensa esposizione al sole, il colore è generalmente più scuro, perché questo pone gli individui al riparo dagli effetti dannosi della luce UV (cancro della pelle), mentre dove l’esposizione è minore, la carnagione tende a essere più chiara, perché così aumenta l’assorbimento della luce attraverso la pelle che è necessario per la sintesi di vitamina D. Il valore adattativo di queste differenze può spiegare perché il colore sia diverso tra gli individui che abitano regioni diverse, per esempio africana, europea o asiatica, ma in questo confronto perdiamo di vista la gradualità che invece osserviamo tra gruppi che vivono in regioni contigue.
Quindi ogni persona riceve il suo patrimonio genetico, dai suoi genitori e, prima ancora dagli antenati. In questo patrimonio è racchiuso un potenziale, che nel corso della vita diventa una realtà, in continua trasformazione. «Questi processi sono guidati, ma non determinati, dai geni e quindi non interpretabili con il modello secondo il quale lo sviluppo consiste nella “decodificazione di un programma prefissato contenuto nel nostro DNA”. Ammesso che nel nostro DNA sia scritto il nostro futuro, non possiamo, non tener conto del fatto che parole identiche hanno significati diversi in contesti differenti e funzioni molteplici anche nello stesso contesto».
La scuola del determinismo biologico, sostenitrice del razzismo scientifico, ha spesso giocato sul mito che la scienza si fondi su dati oggettivi, affermando di trattare il tema dell’ineguaglianza come una questione puramente scientifica e sostenendo che le proprie posizioni fossero libere da contaminazioni ideologiche o da considerazioni di ordine sociale, politico o religioso Al contrario, essa ha alimentato teorie ad hoc, snaturando e distorcendo i concetti dell’antropologia prima, e della genetica poi, per tenere in vita il mito delle razze. Cercando di erigere inverosimili barriere tra i gruppi umani, si è confusa l’identità religiosa con l’appartenenza etnica (si pensi al caso degli arabi o degli ebrei), la competizione per il potere o per l’egemonia politica scambiata per conflitto razziale: si pensi a baschi e spagnoli, hutu e tutsi, serbi e croati, popolazioni simili, territorialmente confinanti con secoli di convivenza e di rimescolamento genetico alle spalle.
La scuola del determinismo biologico ha sostenuto ogni sorta di conclusione reazionaria, ha tentato di ridurre problemi sociali a problemi di ordine biologico e genetico, negando gli effetti delle disparità sociali. Porta sulle spalle la responsabilità della emarginazione, quando non della sterilizzazione e dell’eliminazione fisica di cittadini indigenti come di minorati psichici e fisici. Una tragica pagina della storia che prese il nome di igiene razziale e culminò nella tragedia dell’olocausto.
Fortunatamente, sono sempre di più gli scienziati che riaffermano che tutte le discriminazioni sono ingiuste ed immotivate, che esse pongono eccessiva enfasi sulle differenze, che vengono considerate arbitrariamente innate, immutabili ed insuperabili, e che una visione deterministica rende un cattivo servizio alla genetica e svilisce il suo importante contributo alle conoscenze in campo biologico.
Purtroppo però, se il razzismo scientifico è del tutto screditato, non possiamo illuderci che il razzismo sia sconfitto. Infatti, come si legge nelle cronache dei quotidiani, anche cambiando gli stereotipi al mutare delle circostanze, l’idea di fondo resta quella che non tutti possono avere gli stessi diritti. E chi ha bisogno di un nemico può facilmente inventarsene uno, attuale o potenziale. Che sia basata su diversità sessuali o linguistiche, socio-culturali o religiose, oppure morfologiche e genetiche, la discriminazione prefigura sempre la negazione della libertà e della dignità dell’uomo. Ma almeno non lo si può più fare in nome della scienza.
La "teoria del razzismo scientifico" fu la "scusa giuridica" per la colonizzazione, ovvero la spartizione dell'Africa da parte delle grandi potenze europee. Fu la "scusa giuridica" per la sottomissione dei popoli africani e dello sfruttamento economico di un intero continente.
L'Africa e il Razzismo Scientifico
In Africa il profondo processo di sincretismo (assimilazione, fusione di elementi tra diverse religioni) ha reso possibile la coesistenza delle religioni tradizionali con quelle rivelate. La prima presenza di missionari cristiani nell'Africa Occidentale è legata strettamente agli iniziali tentativi di evangelizzazione, intrapresi verso la metà del XVII secolo, in quella vasta zona dell'Africa che fu la culla della "tratta degli schiavi".Come lo fu lo schiavismo anche l'imposizione delle religioni occidentali sono state il segno che l'Africa è sempre stato considerato un luogo di conquista perché abitato da popolazioni "primitive" considerate inferiori. E la dimostrazione di ciò è stata la "teoria del razzismo scientifico" ampiamente diffusa in occidente nel XIX secolo, e secondo la quale i "negri", proprio perché dalla pelle scura, non potevano avere l'intelligenza dei bianchi occidentali. Secondo tale teoria gli africani erano posizionati a metà tra l'homo sapiens occidentale e il regno animale.
La "teoria del razzismo scientifico" fu poi la "scusa giuridica" per la colonizzazione, ovvero la spartizione dell'Africa da parte delle grandi potenze europee. Dalla metà del XIX secolo e fino agli anni '60 del XX secolo l'intero continente africano subì non solo una vera e propria occupazione politica, ma anche il suo sfruttamento economico. Agli africani vennero imposte leggi occidentali, religioni occidentali e le lingue occidentali. Se nei secoli precedenti gli africani diventavano schiavi nel "Nuovo Mondo" e fuori dall'Africa, con la colonizzazione iniziata nel XIX secolo, per 150 anni gli africani sono diventati schiavi a casa loro.
La fine della colonizzazione in Africa, avvenuta tra i primi anni '60 e la fine degli anni '70 del XX secolo, non ha però impedito la fine del suo sfruttamento economico e commerciale che ora avviene con modi diversi, attraverso la corruzione, attraverso l'imposizione di governi "fantoccio" appoggiati dall'occidente, di multinazionali aggressive e potentissime dal punto di vista economico. In tutto questo si mescola poi la religione, i fanatismi, l'integralismo islamico, le divisioni su base etnica, ed è anche per questo che oggi l'Africa è in assoluto il continente più litigioso al mondo.
Aiutiamoli a "casa loro".Un motto che che oggi va di moda in Italia e in Europa. Ma aiutare gli africani a casa loro significa soprattutto non sfruttarli, permettere agli africani di usufruire loro stessi delle ricchezze dell'Africa, permettere agli africani di eleggere democraticamente i loro governanti, smetterla di intromettersi come piovre nei meccanismi commerciali, economici e politici degli stati africani.
Un giorno una persona di un certo livello sociale e anche molto istruita mi disse, a proposito dell'ENI che da 50 anni "ruba" il petrolio della mia Nigeria, "ma i nigeriani NON hanno la tecnologia e la conoscenza necessaria per estrarre e raffinare loro stessi il loro petrolio", un'implicita dimostrazione che la "teoria del razzismo scientifico", ancora oggi è ben radicata nel cervello di molti bianchi occidentali, anche tra quelli con cultura superiore, come se gli africani non fossero in grado di amministrare da soli le loro ricchezze, una giustificazione per dire che lo sfruttamento dell'Africa da parte dell'occidente è ancora necessario.